RECENSIONI
William Owen Roberts
Y pla (La peste)
MobyDick, Pag. 236 14,00
E' merito della collana "Parole dal Galles/Geriau O Gymru", ottimamente curata da Andrea Bianchi e Silvana Siviero, se giungono a noi romanzi come questo, scritti direttamente nella misteriosa lingua gallese. Si pensi che l'Autore ricorre alla moglie Elisabeth per le traduzioni dal gallese all'inglese.
La peste a cui si riferisce il titolo è quella degli anni 1347-50. Contrariamente a quello che si può pensare, essa occupa solo una piccola parte dello spazio narrativo, ma è una presenza che incombe per tutta la durata del libro, una minaccia sospesa, un evento pazientemente preparato all'insaputa degli ignari personaggi.
E proprio in quel momento qualcosa cominciava il suo lungo e terribile viaggio; dal Mar Nero, implacabile, prendeva a farsi strada verso il continente europeo.
Due storie parallele si snodano in forma sinottica, alternandosi capitolo per capitolo. L'una racconta il viaggio di uno studente egiziano, che lascia la quiete della Madrasa per andare ad uccidere il re di Francia, muovendosi per mare e per terra in compagnia di gentiluomini, avventurieri e frati: una storia a metà fra il romanzo picaresco e le novelle del Boccaccio, a cui fa esplicito riferimento. L'altra parte è quella, per noi più insolita, che riguarda personaggi e vicende di un villaggio del profondo Galles, dove si vive una vita alquanto primitiva, fra liberi cittadini e servi della gleba (ovvero bonheddwyr e taeogion). Religione, superstizione, sesso e solenni bevute scandiscono la povera vita del villaggio (ovvero della maerdref). L'uso dei termini gallesi, che vengono tradotti e commentati nella puntuale notazione, ha un'efficace funzione evocatrice nell'illustrare un ambiente così alieno per noi, e così diverso da quello delle città italiane visitate dall'egiziano in viaggio. Sembrano messe a confronto due anime del medioevo, in un momento che prelude a un passaggio verso la modernità. I nuovi fermenti coesistono con una profonda inerzia fondata sull'ignoranza e sulla superstizione, ma alla fine niente può fermare il corso della storia. Dopo che la peste avrà sconvolto i preesistenti equilibri, le antiche forme di rapporti sociali ed economici cederanno il passo a nuove istituzioni, e anche nei villaggi del Galles la servitù della gleba verrà sostituita da contratti di altro tipo. Nel presentare questo passaggio evolutivo il romanzo scivola su una china didascalica quasi insopportabile, ma non è questo che importa. A sostenerlo sono le coloriture dei personaggi, la felicità narrativa, le scenette gustose. Una per tutte, l'arrivo di una creatura celeste, attesa fra crisi mistiche ed estasi visionarie dalle suore di un convento di Genova:
... un silenzio incantato accompagnava il suo incedere lento fra di loro, che deferenti si scostavano. Il capo aveva ornato di una bella corona fulgida, il corpo lungo ed elegante avvolto in una larga e serica mantella candida dal bordo scarlatto. Muoveva la bocca come se masticasse e guardava con gli occhi scuri e liquidi di quel viso piccolo, in cima a un lungo collo flessuoso.
Ad occhi più disincantati la creatura si rivelerà poi essere nient'altro che una giraffa!
L'Autore non si affida solo alla propria fantasia, ma ricorre spesso a fonti medioevali, fra cui il Decamerone. E' merito dei curatori se di queste citazioni veniamo puntualmente informati.
di Giovanna Repetto
La peste a cui si riferisce il titolo è quella degli anni 1347-50. Contrariamente a quello che si può pensare, essa occupa solo una piccola parte dello spazio narrativo, ma è una presenza che incombe per tutta la durata del libro, una minaccia sospesa, un evento pazientemente preparato all'insaputa degli ignari personaggi.
E proprio in quel momento qualcosa cominciava il suo lungo e terribile viaggio; dal Mar Nero, implacabile, prendeva a farsi strada verso il continente europeo.
Due storie parallele si snodano in forma sinottica, alternandosi capitolo per capitolo. L'una racconta il viaggio di uno studente egiziano, che lascia la quiete della Madrasa per andare ad uccidere il re di Francia, muovendosi per mare e per terra in compagnia di gentiluomini, avventurieri e frati: una storia a metà fra il romanzo picaresco e le novelle del Boccaccio, a cui fa esplicito riferimento. L'altra parte è quella, per noi più insolita, che riguarda personaggi e vicende di un villaggio del profondo Galles, dove si vive una vita alquanto primitiva, fra liberi cittadini e servi della gleba (ovvero bonheddwyr e taeogion). Religione, superstizione, sesso e solenni bevute scandiscono la povera vita del villaggio (ovvero della maerdref). L'uso dei termini gallesi, che vengono tradotti e commentati nella puntuale notazione, ha un'efficace funzione evocatrice nell'illustrare un ambiente così alieno per noi, e così diverso da quello delle città italiane visitate dall'egiziano in viaggio. Sembrano messe a confronto due anime del medioevo, in un momento che prelude a un passaggio verso la modernità. I nuovi fermenti coesistono con una profonda inerzia fondata sull'ignoranza e sulla superstizione, ma alla fine niente può fermare il corso della storia. Dopo che la peste avrà sconvolto i preesistenti equilibri, le antiche forme di rapporti sociali ed economici cederanno il passo a nuove istituzioni, e anche nei villaggi del Galles la servitù della gleba verrà sostituita da contratti di altro tipo. Nel presentare questo passaggio evolutivo il romanzo scivola su una china didascalica quasi insopportabile, ma non è questo che importa. A sostenerlo sono le coloriture dei personaggi, la felicità narrativa, le scenette gustose. Una per tutte, l'arrivo di una creatura celeste, attesa fra crisi mistiche ed estasi visionarie dalle suore di un convento di Genova:
... un silenzio incantato accompagnava il suo incedere lento fra di loro, che deferenti si scostavano. Il capo aveva ornato di una bella corona fulgida, il corpo lungo ed elegante avvolto in una larga e serica mantella candida dal bordo scarlatto. Muoveva la bocca come se masticasse e guardava con gli occhi scuri e liquidi di quel viso piccolo, in cima a un lungo collo flessuoso.
Ad occhi più disincantati la creatura si rivelerà poi essere nient'altro che una giraffa!
L'Autore non si affida solo alla propria fantasia, ma ricorre spesso a fonti medioevali, fra cui il Decamerone. E' merito dei curatori se di queste citazioni veniamo puntualmente informati.
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