RACCONTI
Luigi Rocca
La città cancellata.

Il viaggiatore che giungesse a Leonora dalle bianche torri potrebbe pensare a uno scherzo: per quale altro motivo infatti le carte geografiche dovrebbero segnalare con grande evidenza una città che invece non esiste? Arrivando dal deserto inoltre avrebbe incontrato cartelli stradali con la distanza da percorrere per raggiungerla o addirittura quello un po’ danneggiato messo a indicare che lì, proprio lì, comincia la città tanto desiderata. Solo che la città non c’è, non esiste.
Comunque è inutile anche provare a immaginare la sorpresa del viaggiatore - mercante o turista che sia - perché le strade di Leonora sono ormai ricoperte dalla sabbia e non sono più percorse da nessuno. Può capitare che uno sparuto gruppo degli abitanti di un tempo vi faccia ritorno, sperando di ritrovare magari un qualche oggetto sopravvissuto alla devastazione, perché tutto può far comodo quando non è rimasto nulla. In fondo basterebbe anche un ricordo a far tornare un po’ di speranza in chi la speranza sembra averla smarrita completamente. Sono allora donne, soprattutto donne, a calcare la traccia scomparsa di quelle vie, tenendo per mano i bambini o spingendo passeggini lamentosi, attente ad evitare le buche dove le piccole ruote potrebbero insabbiarsi. Sono tutte uguali, queste donne: non hanno età o vesti che le distinguano una dall’altra e anche gli sguardi dei loro occhi sembrano contenere lo stesso sconforto. Avanzano lentamente muovendo la testa a destra e sinistra nel tentativo di riconoscere qualcosa in quella spianata di macerie. Talvolta lo scheletro di un alberello bruciacchiato o uno spiazzo di erba polverosa possono dare l’illusione di trovarsi in un parco, in una piazza o in un giardino, senza che la memoria li ricordi. Non ci sono più le torri a dare una direzione, non ci sono più i palazzi, non c’è più niente.
A far da padrone in questo paesaggio esausto è l’odore sospeso nell’aria come un macigno, senza che nessun vento riesca a spostarlo. Un odore difficile da definire perché prima non c’era - non c’era mai stato - mentre ora pervade ogni angolo, anche se le donne preferiscono fingere di non sentirlo.
E’ possibile anche incontrare un brandello di muro non completamente crollato o addirittura un frammento di tubazione che spunta dal terreno per arrampicarsi brevemente nel vuoto, immobile e inutile come tutto quello che c’è intorno. Sono i bambini a mostrare maggiore curiosità per quella desolazione di calcinacci, sono le loro piccole dita a indicare fantasie che potrebbero riempire quegli spazi.
“Lì, lì c’era la casa della maestra…”
“Non dire sciocchezze!”
“Non sono sciocchezze, mamma. Lei usciva di casa tutte le mattine e attraversava questa strada per venire a scuola. Noi la aspettavamo dietro gli scivoli del parco, per arrivare insieme a lei.”
“Ma dove lo vedi il parco? Dove sono gli scivoli?”
“Era qui. Ne sono sicura.”
E se la bambina è abbastanza grande si libera dalla mano della mamma e corre insieme a qualche compagna verso lo spiazzo per cercare una conferma al proprio ricordo. Basta un frammento di plastica colorata, qualcosa al quale si possa dare un nome.
“Ecco. Hai visto? Questo era lo scivolo. Noi stavamo qui nascoste. E là c’era la scuola.”
La collina di detriti indicata con gioia non racconta niente di sé: scuola, casa o ospedale non fa più nessuna differenza. Però conforta che qualcosa si riesca ancora a riconoscere, perché se quello era davvero il parco e là c’era la scuola, allora tre cumuli di macerie più avanti c’era la casa della bambina, così le donne si fermano e fissano quel vuoto di mattoni pensando che un tempo erano stati pareti, soffitti, tetto, che c’erano scale per salire ai piani superiori e mobili dove riporre le lenzuola.
“Ricordi quando ci invitavi a prendere il tè?”
“Voi portavate i biscotti al miele.”
“I bambini giocavano in giardino o si nascondevano in soffitta.”
“Avevi quel bel tappeto morbido e colorato.”
“Potrei invitarvi anche adesso, se volete. Potete salire qualche minuto a riposare.”
“Sì. Chiacchieriamo un po’ come ai vecchi tempi.”
“Sarebbe bello. Ma non abbiamo i biscotti.”
“Possiamo mandare i bambini a comprarli. Lì c’era la bottega del vecchio che li vendeva.”
Si voltano verso un altro cumulo di macerie alle loro spalle.
“Dovrebbero stare attenti alle automobili. Questa strada è sempre molto trafficata.”
“Oppure facciamo una torta. Ora guardo se ho abbastanza farina.”
“Sì, facciamo una torta” gridano le bambine.
“Sarebbe bello…”
Il silenzio scende nuovamente sulle donne, mentre le labbra si sforzano di ricordare la morbidezza dell’impasto, anche se sotto i denti si sente solo lo scricchiolare della polvere. Poi una voce richiama indietro i piccoli più ardimentosi che hanno cominciato ad arrampicarsi sulle macerie.
“Venite via da lì che ci può essere ancora qualcosa di pericoloso.”
Scuotendo la testa per la delusione dell’avventura interrotta, i bambini cominciano la discesa.
“Andiamo a cercare casa mia” dice un’altra delle donne.
“Ma casa tua è lontana.”
“Ma no. Là in fondo c’è un semaforo e giri a sinistra. Non ricordi? Ci abito da tanto tempo…”
Così il gruppo riprende lentamente a muoversi per le strade nascoste di Leonora dalle bianche torri, città che ormai non esiste più.
Comunque è inutile anche provare a immaginare la sorpresa del viaggiatore - mercante o turista che sia - perché le strade di Leonora sono ormai ricoperte dalla sabbia e non sono più percorse da nessuno. Può capitare che uno sparuto gruppo degli abitanti di un tempo vi faccia ritorno, sperando di ritrovare magari un qualche oggetto sopravvissuto alla devastazione, perché tutto può far comodo quando non è rimasto nulla. In fondo basterebbe anche un ricordo a far tornare un po’ di speranza in chi la speranza sembra averla smarrita completamente. Sono allora donne, soprattutto donne, a calcare la traccia scomparsa di quelle vie, tenendo per mano i bambini o spingendo passeggini lamentosi, attente ad evitare le buche dove le piccole ruote potrebbero insabbiarsi. Sono tutte uguali, queste donne: non hanno età o vesti che le distinguano una dall’altra e anche gli sguardi dei loro occhi sembrano contenere lo stesso sconforto. Avanzano lentamente muovendo la testa a destra e sinistra nel tentativo di riconoscere qualcosa in quella spianata di macerie. Talvolta lo scheletro di un alberello bruciacchiato o uno spiazzo di erba polverosa possono dare l’illusione di trovarsi in un parco, in una piazza o in un giardino, senza che la memoria li ricordi. Non ci sono più le torri a dare una direzione, non ci sono più i palazzi, non c’è più niente.
A far da padrone in questo paesaggio esausto è l’odore sospeso nell’aria come un macigno, senza che nessun vento riesca a spostarlo. Un odore difficile da definire perché prima non c’era - non c’era mai stato - mentre ora pervade ogni angolo, anche se le donne preferiscono fingere di non sentirlo.
E’ possibile anche incontrare un brandello di muro non completamente crollato o addirittura un frammento di tubazione che spunta dal terreno per arrampicarsi brevemente nel vuoto, immobile e inutile come tutto quello che c’è intorno. Sono i bambini a mostrare maggiore curiosità per quella desolazione di calcinacci, sono le loro piccole dita a indicare fantasie che potrebbero riempire quegli spazi.
“Lì, lì c’era la casa della maestra…”
“Non dire sciocchezze!”
“Non sono sciocchezze, mamma. Lei usciva di casa tutte le mattine e attraversava questa strada per venire a scuola. Noi la aspettavamo dietro gli scivoli del parco, per arrivare insieme a lei.”
“Ma dove lo vedi il parco? Dove sono gli scivoli?”
“Era qui. Ne sono sicura.”
E se la bambina è abbastanza grande si libera dalla mano della mamma e corre insieme a qualche compagna verso lo spiazzo per cercare una conferma al proprio ricordo. Basta un frammento di plastica colorata, qualcosa al quale si possa dare un nome.
“Ecco. Hai visto? Questo era lo scivolo. Noi stavamo qui nascoste. E là c’era la scuola.”
La collina di detriti indicata con gioia non racconta niente di sé: scuola, casa o ospedale non fa più nessuna differenza. Però conforta che qualcosa si riesca ancora a riconoscere, perché se quello era davvero il parco e là c’era la scuola, allora tre cumuli di macerie più avanti c’era la casa della bambina, così le donne si fermano e fissano quel vuoto di mattoni pensando che un tempo erano stati pareti, soffitti, tetto, che c’erano scale per salire ai piani superiori e mobili dove riporre le lenzuola.
“Ricordi quando ci invitavi a prendere il tè?”
“Voi portavate i biscotti al miele.”
“I bambini giocavano in giardino o si nascondevano in soffitta.”
“Avevi quel bel tappeto morbido e colorato.”
“Potrei invitarvi anche adesso, se volete. Potete salire qualche minuto a riposare.”
“Sì. Chiacchieriamo un po’ come ai vecchi tempi.”
“Sarebbe bello. Ma non abbiamo i biscotti.”
“Possiamo mandare i bambini a comprarli. Lì c’era la bottega del vecchio che li vendeva.”
Si voltano verso un altro cumulo di macerie alle loro spalle.
“Dovrebbero stare attenti alle automobili. Questa strada è sempre molto trafficata.”
“Oppure facciamo una torta. Ora guardo se ho abbastanza farina.”
“Sì, facciamo una torta” gridano le bambine.
“Sarebbe bello…”
Il silenzio scende nuovamente sulle donne, mentre le labbra si sforzano di ricordare la morbidezza dell’impasto, anche se sotto i denti si sente solo lo scricchiolare della polvere. Poi una voce richiama indietro i piccoli più ardimentosi che hanno cominciato ad arrampicarsi sulle macerie.
“Venite via da lì che ci può essere ancora qualcosa di pericoloso.”
Scuotendo la testa per la delusione dell’avventura interrotta, i bambini cominciano la discesa.
“Andiamo a cercare casa mia” dice un’altra delle donne.
“Ma casa tua è lontana.”
“Ma no. Là in fondo c’è un semaforo e giri a sinistra. Non ricordi? Ci abito da tanto tempo…”
Così il gruppo riprende lentamente a muoversi per le strade nascoste di Leonora dalle bianche torri, città che ormai non esiste più.
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