CLASSICI
Alfredo Ronci
Un “piccolo” capolavoro: “Zebio Còtal” di Giulio Cavani.

Scriveva Pier Paolo Pasolini nell’introduzione al volume come fosse atto dovuto: Risulta chiaro, da quanto ho detto, come la materia con cui Cavani lavora, è estremamente tenera, labile, dolce: una specie di cera, tutta sensuale chiarezza, trasparenza e malleabilità. Eppure, una volta modellata, questa cera viene come fissata, dentro, da una potente e quasi diabolica forza di coesione. Sarà la profonda e mal diagnosticabile angoscia di Cavani, che, in extremis, da disgregatrice, per un caparbio, ostinato, disperato bisogno di vita (di memoria pascoliana) si fa costruttrice: quasi per una rivincita sulle forme pure della vita, che l’angoscia ha posto giorno per giorno sotto la luce di una particolare esperienza dolorosa e mortale. Fatto sta che sono pronto a scommettere che figure come quelle di Zebio, della vecchia moglie, della figlia, del bambino che muore e certe primavere, certe nevicate dell’Appennino, sono tra le cose più solide e durature della narrativa contemporanea (da porre forse accanto a quelle dei due “outsiders” Silvio D’Arzo e il Lampedusa).
Dunque, le parole di Pasolini sono ferme e sincere (sentir dire che un romanzo può essere paragonato al Gattopardo non è davvero cosa da tutti), ma crediamo che tutta la critica “riversata” su Zebio Còtal sia anche dovuta al fatto che le precedenti opere di poesia di Cavani, pur considerate malate e diligenti non avevano però suscitato grandi considerazioni. Il primo romanzo di Cavani, appunto Zebio Còtal, invece suscita ammirazione.
E vediamo un po’ questo romanzo. L’anno di uscita è il 1961. Siamo davvero agli sgoccioli del fenomeno letterario che va sotto il nome di neo-realismo. Non sappiamo esattamente cosa volesse trasmettere e quindi anche denunciare il Cavani con la sua storia, certamente ha voluto tramandare episodi salienti e significativi (dolorosi forse è la parola più significativa) della vita e delle opere di un povero contadino e della sua famiglia. Famiglia formata da sei figli e da una moglie sottomessa. Due figli di questi… si assomigliavano ed assomigliavano in modo impressionante al padre. Erano magri, neri come due tizzi, e così stracciati, che quando stavano fermi parevano troppo vestiti e quando si muovevano parevano nudi.
Altri due, un po’ più grandicelli, sembravano più in carne, ma uno di loro, dopo aver preso botte dal padre (bellissima la scena in cui il ragazzino, accasciato e distrutto, si fa la pipì addosso), comincia a deperire e poi all’improvviso muore. Ma di lui , nella terra in cui si spegne, rimane questo… Un colombo sbandato, di penna bianca, giunse a grande altezza sulla costa, portato dal vento. Per un momento ondeggiò sulle ali ferme come per guardare, poi, sfrecciò via, perdendosi nel turchino.
Ma perché non parlare di Zebio Còtal? Accusato dai carabinieri del posto di essere un tipo manesco, orgoglioso e strafottente, e inoltre responsabile della morte del figlio, decide di non reagire e di vagabondare da una osteria all’altra … mentre fuori pareva che la festa si spegnesse col sole, gli sembrò di intuire per la millesima volta che la vita non è che un elemento misterioso dentro cui l’uomo agisce per ragioni indipendenti dalla sua volontà.
Nelle note di copertina di questa prima edizione si legge anche che Zebio Còtal è un personaggio assolutamente negativo, spesso gratuitamente malvagio, bestiale ed inumano ma che il lettore, voltata l’ultima pagina del libro, ha la sensazione d’aver agito ingiustamente nei confronti di questa miserabile creatura.
Non sappiamo, neanche qui, se Cavani abbia voluto “prospettare” una fine del genere nei confronti di Zebio, e neppure l’ultima preghiera che l’uomo fa di fronte alla tomba del figlio morto sembra in qualche modo darci delle indicazioni più precise: Ragazzo ascoltami; è la prima volta che ti parlo apertamente e sarà probabilmente l’ultima; ti ringrazio perché hai saputo tacere e far tacere anche gli altri, ti ringrazio perché mi hai salvato dalla galera; ma non basta questo, non basta, capisci? Bisogna che tu mi dica cosa debbo fare ora, come debbo comportarmi con tua madre, i tuoi fratelli… No, disse poi dopo un lungo silenzio, anche tu non puoi fare nulla per me; bisogna rassegnarsi al proprio destino, bisogna chiudere gli occhi e andare avanti alla cieca finché ci sarà fiato.
Di fiato gliene rimarrà poco, perché dopo aver saputo della morte della moglie, di non aver riconosciuto un figlio che gli era sfuggito e confrontarsi con la figlia più grande, si lascia andare e morire.
Pasolini diceva ancora così di Zebio Còtal: …opere struggenti nella loro evidente classicità, ma dettate in una lingua diversa: e quindi tutte rivolta ai sensi, e a quella cosa, che, ai sensi, è legata, ma è cieca, muta, sorda – povera, terribile lastra in cui si imprimono, malgrado noi, malgrado il tempo, le linee, le tinte, le figure, i paesaggi, le cose, insomma, che competono l’anima.
Che altro dire?
L’edizione da noi considerata è:
Guido Cavani
Zebio Còtal
Feltrinelli
Dunque, le parole di Pasolini sono ferme e sincere (sentir dire che un romanzo può essere paragonato al Gattopardo non è davvero cosa da tutti), ma crediamo che tutta la critica “riversata” su Zebio Còtal sia anche dovuta al fatto che le precedenti opere di poesia di Cavani, pur considerate malate e diligenti non avevano però suscitato grandi considerazioni. Il primo romanzo di Cavani, appunto Zebio Còtal, invece suscita ammirazione.
E vediamo un po’ questo romanzo. L’anno di uscita è il 1961. Siamo davvero agli sgoccioli del fenomeno letterario che va sotto il nome di neo-realismo. Non sappiamo esattamente cosa volesse trasmettere e quindi anche denunciare il Cavani con la sua storia, certamente ha voluto tramandare episodi salienti e significativi (dolorosi forse è la parola più significativa) della vita e delle opere di un povero contadino e della sua famiglia. Famiglia formata da sei figli e da una moglie sottomessa. Due figli di questi… si assomigliavano ed assomigliavano in modo impressionante al padre. Erano magri, neri come due tizzi, e così stracciati, che quando stavano fermi parevano troppo vestiti e quando si muovevano parevano nudi.
Altri due, un po’ più grandicelli, sembravano più in carne, ma uno di loro, dopo aver preso botte dal padre (bellissima la scena in cui il ragazzino, accasciato e distrutto, si fa la pipì addosso), comincia a deperire e poi all’improvviso muore. Ma di lui , nella terra in cui si spegne, rimane questo… Un colombo sbandato, di penna bianca, giunse a grande altezza sulla costa, portato dal vento. Per un momento ondeggiò sulle ali ferme come per guardare, poi, sfrecciò via, perdendosi nel turchino.
Ma perché non parlare di Zebio Còtal? Accusato dai carabinieri del posto di essere un tipo manesco, orgoglioso e strafottente, e inoltre responsabile della morte del figlio, decide di non reagire e di vagabondare da una osteria all’altra … mentre fuori pareva che la festa si spegnesse col sole, gli sembrò di intuire per la millesima volta che la vita non è che un elemento misterioso dentro cui l’uomo agisce per ragioni indipendenti dalla sua volontà.
Nelle note di copertina di questa prima edizione si legge anche che Zebio Còtal è un personaggio assolutamente negativo, spesso gratuitamente malvagio, bestiale ed inumano ma che il lettore, voltata l’ultima pagina del libro, ha la sensazione d’aver agito ingiustamente nei confronti di questa miserabile creatura.
Non sappiamo, neanche qui, se Cavani abbia voluto “prospettare” una fine del genere nei confronti di Zebio, e neppure l’ultima preghiera che l’uomo fa di fronte alla tomba del figlio morto sembra in qualche modo darci delle indicazioni più precise: Ragazzo ascoltami; è la prima volta che ti parlo apertamente e sarà probabilmente l’ultima; ti ringrazio perché hai saputo tacere e far tacere anche gli altri, ti ringrazio perché mi hai salvato dalla galera; ma non basta questo, non basta, capisci? Bisogna che tu mi dica cosa debbo fare ora, come debbo comportarmi con tua madre, i tuoi fratelli… No, disse poi dopo un lungo silenzio, anche tu non puoi fare nulla per me; bisogna rassegnarsi al proprio destino, bisogna chiudere gli occhi e andare avanti alla cieca finché ci sarà fiato.
Di fiato gliene rimarrà poco, perché dopo aver saputo della morte della moglie, di non aver riconosciuto un figlio che gli era sfuggito e confrontarsi con la figlia più grande, si lascia andare e morire.
Pasolini diceva ancora così di Zebio Còtal: …opere struggenti nella loro evidente classicità, ma dettate in una lingua diversa: e quindi tutte rivolta ai sensi, e a quella cosa, che, ai sensi, è legata, ma è cieca, muta, sorda – povera, terribile lastra in cui si imprimono, malgrado noi, malgrado il tempo, le linee, le tinte, le figure, i paesaggi, le cose, insomma, che competono l’anima.
Che altro dire?
L’edizione da noi considerata è:
Guido Cavani
Zebio Còtal
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