RECENSIONI
George Steiner
Tolstoj o Dostoevskij
Garzanti, Pag. 360 Euro 13,50
Un libro capitale della storia della critica letteraria. Ha molti anni e li dimostra tutti – ma parliamo di vino buono. Lo ripropone ora Garzanti in economica. Un lavoro gremito di riflessioni analisi exempla. Uno stile nitido, nonostante la necessaria capillarità dei percorsi intertestuali, l'ossatura enciclopedica che si avvale di richiami dottissimi, da Omero a Hoffmannsthal, da lettore che ama i testi epperò non li usa per lambiccarsi con il proposito di farsi bello lui – v'è chi per questo lo ritiene vecchio, ossia da buttare, senza spiegarci in cosa consista il nuovo. Né tantomeno sapersi affrancare da infantili sindromi avanguardistiche più noiose che irritanti.
Il dolce stile di questo capo d'opera sta davanti ai due monumenti con devozione e rigore. Il romanzo russo, fosse solo per quei due, diventa cioè il campo d'indagine di una ricerca che investe l'universo-mondo, che dalla letteratura ricava due concezioni fondanti e antitetiche: Tolstoj situandosi al punto liminare della tradizione epica persuasa del carattere unitario dell'esperienza umana, Dostoevskij avvicinando come nessun altro il paradigma di una visione tragica della realtà. Essa ai suoi occhi appare "spettrale e inconsistente", sicché egli, con tutti gli sforzi possibili, non ha da proporre una verità definitiva del mondo. Il finale di Delitto e Castigo suona posticcio (parere di chi scrive non di Steiner) essendo evidente come il senso dell'opera sia nel processo dialettico delle lingue che ivi si scontrano; e come aveva mostrato un altro grande dimenticato, Michail Bachtin, il mondo nell'opera di Dostoevskij prende il tono e la consistenza che gli forniscono i personaggi – lo stile, in lui, è faccenda che riguarda i suoi fantasmi. Tolstoj, non più morale dell'altro, ma tetragono nella dura necessità di un fondamento, cerca una giustezza, quasi una rettitudine dell'opera che sia inclusiva della biografia del suo autore. La frattura, in lui, è "composta", la lacerazione meno agitata – il principio speranza ancora un vessillo (anche qua: ma ci crede davvero?). Tolstoj in somma sembrerebbe illudersi di fissare il tempo in una superiore sostanza metafisica che dia ragione del mondo, laddove Dostoevskij accelera sul pedale dell'entropia con un'intensità drammatica che il mondo glielo toglie sotto i piedi.
L'idea è – per chi non lo avesse ancora fatto: leggersi almeno tre o quattro opere dei due grandissimi russi e poi tuffarsi in questo libro per tornare su La morte di Ivan Il'ic e I Fratelli Karamazov come quando, dopo averne goduto attraverso gli occhi, ci riavviciniamo a un ritratto fiorentino del Rinascimento avendo imparato la lezione di Ady Warburg.
Diceva difatti da qualche parte Steiner, anni fa: Agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. I miei studenti a Cambridge hanno un esame in cui discutono l'opinione di T.S. Elliot su Dante senza dovere leggere Dante, un solo verso di Dante. (...) Quello che ci vuole è un'interpretazione dinamica, un'interpretazione che sia azione e non passività. Leggere la critica, leggere i testi "secondari", significa essere passivi, come davanti alla televisione; significa rinunciare alla responsabilità dell'azione. Chiaro no?
di Michele Lupo
Il dolce stile di questo capo d'opera sta davanti ai due monumenti con devozione e rigore. Il romanzo russo, fosse solo per quei due, diventa cioè il campo d'indagine di una ricerca che investe l'universo-mondo, che dalla letteratura ricava due concezioni fondanti e antitetiche: Tolstoj situandosi al punto liminare della tradizione epica persuasa del carattere unitario dell'esperienza umana, Dostoevskij avvicinando come nessun altro il paradigma di una visione tragica della realtà. Essa ai suoi occhi appare "spettrale e inconsistente", sicché egli, con tutti gli sforzi possibili, non ha da proporre una verità definitiva del mondo. Il finale di Delitto e Castigo suona posticcio (parere di chi scrive non di Steiner) essendo evidente come il senso dell'opera sia nel processo dialettico delle lingue che ivi si scontrano; e come aveva mostrato un altro grande dimenticato, Michail Bachtin, il mondo nell'opera di Dostoevskij prende il tono e la consistenza che gli forniscono i personaggi – lo stile, in lui, è faccenda che riguarda i suoi fantasmi. Tolstoj, non più morale dell'altro, ma tetragono nella dura necessità di un fondamento, cerca una giustezza, quasi una rettitudine dell'opera che sia inclusiva della biografia del suo autore. La frattura, in lui, è "composta", la lacerazione meno agitata – il principio speranza ancora un vessillo (anche qua: ma ci crede davvero?). Tolstoj in somma sembrerebbe illudersi di fissare il tempo in una superiore sostanza metafisica che dia ragione del mondo, laddove Dostoevskij accelera sul pedale dell'entropia con un'intensità drammatica che il mondo glielo toglie sotto i piedi.
L'idea è – per chi non lo avesse ancora fatto: leggersi almeno tre o quattro opere dei due grandissimi russi e poi tuffarsi in questo libro per tornare su La morte di Ivan Il'ic e I Fratelli Karamazov come quando, dopo averne goduto attraverso gli occhi, ci riavviciniamo a un ritratto fiorentino del Rinascimento avendo imparato la lezione di Ady Warburg.
Diceva difatti da qualche parte Steiner, anni fa: Agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. I miei studenti a Cambridge hanno un esame in cui discutono l'opinione di T.S. Elliot su Dante senza dovere leggere Dante, un solo verso di Dante. (...) Quello che ci vuole è un'interpretazione dinamica, un'interpretazione che sia azione e non passività. Leggere la critica, leggere i testi "secondari", significa essere passivi, come davanti alla televisione; significa rinunciare alla responsabilità dell'azione. Chiaro no?
di Michele Lupo
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