RECENSIONI
Qiu Xiaolong
Quando il rosso è nero
Marsilio, Pag.285 Euro 16,00
Raccontava il tale: una cinese partorì, il compare si avvicinò per vedere il bambino. – Toh guarda, assomiglia tutto a suo padre – poi voltandosi – ma assomiglia pure a suo fratello – e rivoltandosi – ma assomiglia pure a suo zio – e ancora – ma anche al nipote, al suocero, all'amico, al postino...
Direte voi: che c'azzecca la barzelletta razzista con un poliziesco ambientato in Cina?
C'entra perché qualche difficoltà, noi occidentali, l'abbiamo a ricordare i nomi che, con modalità classiche secondo canovacci gialli ben consolidati, l'autore (peraltro di Shanghai ma residente negli Stati Uniti dal 1989) snocciola con sicurezza adamantina.
Non è la prima volta che noi lettori di noir ci imbattiamo in situazioni del genere: Peter May, scozzese di origine, ambienta le sue storie a Pechino, con protagonisti una patologa americana Margaret Campbell e un investigatore cinese (guarda caso alto 1,80, tanto per non sfigurare... ma nei recenti campionati mondiali di basket abbiamo visto un orientale alto 2,26!) di nome Li Yan.
Dicevamo i nomi: qui (ma dove? Ma nel romanzo in questione, no?) si scherza pure col fuoco: la vittima si chiama Yin e il suo amante e benefattore si chiama Yang (e qualcuno che ha dimestichezza con gli opposti estremismi potrebbe piegarsi in due dalle risate). In più: l'ispettore vice che sostituisce una sorta di Poirot intellettuale fa Yu (quindi le cose si complicano assai).
Per fortuna che Qiu (ehi svegliatevi, sto parlando dell'autore!) devia spesso dall'onomastica per indulgere sulla politica. E ci racconta della Cina pre-colonizzata dal capitalismo sfrenato, della rivoluzione culturale che ha fatto danni irreparabili e delle condizioni disumane in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione.
Puro didascalismo: come ambientare un poliziesco esotico nella Libia occupata dagli italiani durante il fascismo e invece che parlare dell'indagine si indulge sulle conseguenze dei gas usati dal criminale di guerra Graziani.
Insomma il libro (che fa parte di una serie, siamo già a 3!) è inusuale: ma non per l'ambientazione forastiera, né per un'originalità deviante, ma per un uso del noir che è mezzo per raggiungere uno scopo. Che vorrebbe essere istruttivo e divulgativo.
Ma tutto è legnoso e autoreferenziale e la noia serpeggia anche quando l'autore ci guida in una Shanghai che non è lustrini ed economia, ma disperazione, solitudine e ristrettezze economiche.
Peter May (vedi sopra) fa meglio: non compassiona troppo, scivola sull'asfalto della metropoli cinese senza cadere nelle buche della politica-colabrodo o della storia disseminata di orrori (beccateve la dolce metafora!) ed è più intrigante.
Qui (ma dove? Ma nel romanzo in questione, no?... sempre la stessa solfa!) la soluzione del delitto avviene senza mordere tanto che poi ci si chiede se possa essere davvero una tattica o addirittura una sospensione del meccanismo giallo.
Ancora non è il momento di un poliziesco cinese (questo immenso paese ha altro a cui pensare) e le uniche tracce sono tracce, in verità, di dissidenza. Sarà pure giusto, ma nella valenza della proposta non sento prurigine. Ma radicalismi chiccosi.
di Eleonora del Poggio
Direte voi: che c'azzecca la barzelletta razzista con un poliziesco ambientato in Cina?
C'entra perché qualche difficoltà, noi occidentali, l'abbiamo a ricordare i nomi che, con modalità classiche secondo canovacci gialli ben consolidati, l'autore (peraltro di Shanghai ma residente negli Stati Uniti dal 1989) snocciola con sicurezza adamantina.
Non è la prima volta che noi lettori di noir ci imbattiamo in situazioni del genere: Peter May, scozzese di origine, ambienta le sue storie a Pechino, con protagonisti una patologa americana Margaret Campbell e un investigatore cinese (guarda caso alto 1,80, tanto per non sfigurare... ma nei recenti campionati mondiali di basket abbiamo visto un orientale alto 2,26!) di nome Li Yan.
Dicevamo i nomi: qui (ma dove? Ma nel romanzo in questione, no?) si scherza pure col fuoco: la vittima si chiama Yin e il suo amante e benefattore si chiama Yang (e qualcuno che ha dimestichezza con gli opposti estremismi potrebbe piegarsi in due dalle risate). In più: l'ispettore vice che sostituisce una sorta di Poirot intellettuale fa Yu (quindi le cose si complicano assai).
Per fortuna che Qiu (ehi svegliatevi, sto parlando dell'autore!) devia spesso dall'onomastica per indulgere sulla politica. E ci racconta della Cina pre-colonizzata dal capitalismo sfrenato, della rivoluzione culturale che ha fatto danni irreparabili e delle condizioni disumane in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione.
Puro didascalismo: come ambientare un poliziesco esotico nella Libia occupata dagli italiani durante il fascismo e invece che parlare dell'indagine si indulge sulle conseguenze dei gas usati dal criminale di guerra Graziani.
Insomma il libro (che fa parte di una serie, siamo già a 3!) è inusuale: ma non per l'ambientazione forastiera, né per un'originalità deviante, ma per un uso del noir che è mezzo per raggiungere uno scopo. Che vorrebbe essere istruttivo e divulgativo.
Ma tutto è legnoso e autoreferenziale e la noia serpeggia anche quando l'autore ci guida in una Shanghai che non è lustrini ed economia, ma disperazione, solitudine e ristrettezze economiche.
Peter May (vedi sopra) fa meglio: non compassiona troppo, scivola sull'asfalto della metropoli cinese senza cadere nelle buche della politica-colabrodo o della storia disseminata di orrori (beccateve la dolce metafora!) ed è più intrigante.
Qui (ma dove? Ma nel romanzo in questione, no?... sempre la stessa solfa!) la soluzione del delitto avviene senza mordere tanto che poi ci si chiede se possa essere davvero una tattica o addirittura una sospensione del meccanismo giallo.
Ancora non è il momento di un poliziesco cinese (questo immenso paese ha altro a cui pensare) e le uniche tracce sono tracce, in verità, di dissidenza. Sarà pure giusto, ma nella valenza della proposta non sento prurigine. Ma radicalismi chiccosi.
di Eleonora del Poggio
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