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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Bathor Dariusson

Estate

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Per scrivere il biglietto strappo l'ultima pagina di un vecchio quaderno che ho trovato in fondo a un cassetto. Dev'essere stato di uno dei ragazzi, ai tempi della scuola. Forse per questo mi viene da scrivere in stampatello rosso, come mi piaceva fare da bambino. La maestra si arrabbiava moltissimo, ricordo, sia per il rosso che per lo stampatello (il rosso era proibito perché riservato a lei, lo stampatello perché dovevamo imparare a scrivere in corsivo). Ripiego il foglio con cura e lo metto nella tasca della camicia.

«Sto uscendo, vado al terreno», bofonchio in direzione di Laura quando ho fini-to. «Mmhh mmhh», fa lei senza girarsi.

Per prima cosa passo dal droghiere. Ha la faccia paonazza e la maglietta sudata come tutti, in questa mattina di metà agosto.

«Tutto a posto?», mi fa con lo sguardo assente.

«Si tira avanti», rispondo io. «Mi servono tre metri di tubo di gomma, di quelli per innaffiare, il più grosso che ha, e un rotolo di nastro da pacchi». Lui esegue senza fare domande. Controllo il diametro del tubo: dovrebbe andar bene.

I terreni intorno al mio sono deserti, come ho previsto. Nessuno dei vicini ha osato venire al campo in una simile giornata. Passeggio in mezzo alla vigna, senza fretta. Intorno a me, anche le api sembrano ronzare al rallentatore, come galleggiando nell'aria densa. Arrivo sino al penultimo filare, nella parte bassa. Mi siedo nel solco, vicino ad un tralcio che regge un grappolo di perfetta, simmetrica bellezza. Stacco un acino, delicatamente. Lo ripulisco, con le dita, dalla polvere e dallo zolfo, poi lo metto in bocca. Non lo mordo subito: prima ne assaporo con la lingua la superficie liscia e tesa, il gusto selvatico, la freschezza inaspettata. Finalmente mi decido a spezzarlo coi denti; chiudo gli occhi e trattengo il respiro, ma l'ondata di acido mi coglie comunque di sorpresa. Resisto alla voglia di sputare e inghiotto.

Mentre risalgo il pendio per tornare alla macchina, vedo su una roccia due lucertole; sono vicinissime tra loro, immobili sulla pietra arroventata; ognuna delle due ha la testa all'altezza della coda dell'altra. Da bambino, mi ricordo, una volta riuscii a ucciderne due con un solo lancio di pietra; stavano proprio in quella posizione. I corpi squarciati delle bestiole, dopo il mio tiro, erano riversi sulla roccia, impastati qua e là di polvere e sangue.

Senza quasi accorgermene, mi abbasso e raccolgo una pietra. Alzo il braccio per prendere la mira. Un attimo prima che faccia scattare la mano, una delle due lucertole si muove, lentamente. Si porta alle spalle dell'altra, solleva le zampette afferrandone il dorso, la copre col suo corpo. Anche se non l'avessi mai visto nelle lucertole, non sarebbe difficile capire un gesto così universale. Poco a poco abbasso la mano, lascio scivolare il sasso a terra.

Essendo rimasta con le portiere e i finestrini chiusi, la macchina è diventata un forno. Tiro fuori ciò che ho comprato. Il tubo, in effetti, è quasi perfetto come diametro. Per sicurezza, comunque, lo fisso con un bel po' di nastro da pacchi. Poi entro in macchina e faccio passare l'altra estremità dal finestrino sinistro, che sollevo il più possibile. Chiudo accuratamente la fessura col nastro, finché mi pare che non ci sia più alcuno spiraglio, poi accendo il motore. Passo sul sedile posteriore e mi sdraio, cercando di controllare il respiro.

Per ora l'odore non è sgradevole come pensavo. Vorrei non pensare a niente, ma ho davanti agli occhi i corpi delle due lucertole che si accoppiano. La loro immagine mi si confonde con quella delle altre due, quelle dilaniate dinanzi al mio sguardo fiero di bimbo.

L'odore è un po' più forte, adesso, ma non è cattivo. Anzi, è persino piacevole. Ora mi gira un po' la testa, come se la macchina avesse preso a navigare in mare aperto. Vedo l'immagine della mamma, un'estate di tantissimi anni fa, con la faccia arrabbiata che rimprovera mio padre per avermi portato al largo in canotto, in un giorno di mare mosso. La vedo ancora, dopo avermi sorpreso a cercare il cioccolato nell'armadio di cucina, che mi sgrida col dito alzato ma il volto, in realtà, sorridente.

Poi c'è qualcosa che passa rapido e mi sfugge.

Ora sto volando verso il Mare del Nord, in gita con la scuola in quarta ele-mentare. Quando arriviamo, ci portano subito in mensa. In attesa del pranzo, mentre gli altri si lanciano briciole di pane, io e Laura ci scambiamo bigliettini; i miei sono pieni di infantile galanteria. Ci mettono in tavola aranciata e altre bibite gassate. Me ne servo, come tutti, con ingordigia di bambino.

Rivedo me stesso aprire la bocca per parlare, il gas trasformare la mia parola, senza che possa far niente per impedirlo, in un enorme, osceno rutto. Spero che nessuno se ne sia accorto, ma un attimo dopo, in un silenzio raggelante, tutti guardano me. Io cerco di spiegarmi, balbetto che non l'ho fatto apposta, che è colpa delle bibite, ma è tutto inutile. Il vicedirettore mi porta per l'orecchio fino all'ufficio di presidenza, una smorfia di disgusto e indignazione sul volto. Mi dice che resterò lì finché arriverà il direttore: deciderà lui che punizione darmi. Poi mi tiene, per un tempo che mi sembra infinito, in piedi nel suo ufficio, mentre lui continua a lavorare alla scrivania come se niente fosse, senza dire una parola. Sbirciando il foglio che ha davanti, ho l'impressione che sia scritto in stampatello rosso, con la mia calligrafia. Sicuramente mi sbaglio, non può essere.

Cerco di alternare il piede d'appoggio ogni tanto, ma cominciano ad addor-mentarmisi le gambe. Un'onda di freddo e formicolio mi risale verso il busto, come se tutto il corpo, dal basso in alto, stesse diventando una statua di marmo. Quando arriva al petto, sento in lontananza l'eco del cuore che batte, sempre più veloce, sempre più veloce.

L'odore più forte è quello del mare, adesso, e mi piace il modo in cui mi av-volge e mi culla. Mi chiedo che punizione mi darà il direttore, quando arriva.





Bathor Dariusson



Nato a Watermael-Boitsfort (Belgio) nel '67 è sposato e insegna Lettere nella Scuola secondaria di primo grado.



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