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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Cesare Moreno (seconda parte)

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Bruno Cirino, l'eccellente attore scomparso nel 1981, interpretò nei primi Settanta "Diario di un maestro". Come lo rifarebbe oggi, sentendosi da sempre "ragazzo di strada", "semiconvittore" e "maestro che ascolta invece di parlare"? E si potrebbe rifarlo, visto che ormai della scuola palesemente non frega più una beata cìppa a nessuno?



Il diario di una maestro dovrebbe essere il diario di un uomo. Di un uomo che inciampa sistematicamente nei caporali di Totò; di un uomo che cerca di sfuggire ai professori, di un uomo che cerca di sfilarsi dalle divise; che cerca la musica in mezzo al frastuono, che cerca il bello nelle discariche, che cerca il vero sulle bancarelle dei falsi griffati, che cerca il bene dove dilaga il male. Uno che sta sempre fuori posto. Uno che vorrebbe poter parlare ai giovani e dirgli che la vita vale la pena di essere vissuta. Questo diario dovrebbe far vedere come la sua vita si trasforma in un libro di testo leggibile, in un manuale d'uso per i giovani. Dovrebbe evitare alla grande di presentarsi come un missionario sociale di alcun tipo, dovrebbe evitare di rappresentarsi come il profeta di una cultura o di una fede, dovrebbe evitare di presentarsi come un grande pensatore. Forse dovrebbe evitare di presentarsi del tutto; oppure presentarsi nudo, presentarsi come attrezzo, come materiale di consumo, come sussidio di piccola entità e deperibile, bene non inventariabile. Forse non dovremmo parlare di scuola ma di educazione, e di seduzione, di come sedurci a vicenda e lasciarci sedurre dalla vita perché solo così possiamo, insieme, educarci, ossia tirarci fuori dallo stato di cose esistenti con le nostre stesse mani. Della scuola non frega a nessuno, perché a nessuno frega di interrogarsi sulla propria esistenza, perché a nessuno frega che ai giovani prima di parlare della storia e della costituzione bisogna parlare dell'essere.



Tenuto conto che "la vita è un romanzo", e di quanto abbiamo già detto, Le è mai capitato di vedere il tal ragazzino o il tale Sofri "sotto la specie" letteraria? Cioè: di comprendere il mondo e di agire in esso come se Totore 'o Coyote fosse il personaggio scemo di "Uomini e topi"?



Siamo pieni di casi letterari. A saper guardare ognuno è un caso. Nel dolore autentico vivono romanzi incredibili, nelle vite finte degli stereotipi non c'è nulla. Riuscire a scrivere delle storie è riuscire a progettare una vita. E' come se le storie fossero già scritte e ci fosse bisogno di un interprete. Sento che poter scrivere delle storie appropriate significherebbe aprire ai nostri giovani l'accesso ad un repertorio di copioni più ricco e diversificato rispetto a quello che oggi hanno davanti. Mi pare che spesso gli interpreti di questo grande giacimento letterario che lastrica le nostre periferie si facciano prendere la mano dall'estetica con la E maiuscola, dalla voglia di eccitare i borghesi, di provocare un brivido di emozione per questo mondo "nature", e molto meno dal desiderio autentico di restituire i romanzi ai loro autori. Io ed i docenti del nostro progetto siamo nelle condizioni materiali per compiere questa operazione, ma spesso non abbiamo la capacità culturale e tecnica di compierla. In parole povere sto dicendo che mi piacerebbe arruolare un poeta nella nostra truppa per girare il nostro film di guerra con la penna e pochi fogli.



E' mai stato frainteso e travisato nelle Sue dichiarazioni? Fino a che punto un Autore, trattando della vita altrui e dell'altrui esperienza, può rielaborare e modificare?



E' frainteso chi si fraintende. A me sembra che mi vada sempre bene. Mi accorgo che se mi intervista un giornale di destra dà una curvatura particolare alle mie vere parole, mi fa apparire un uomo d'ordine. E' un po' falso ma neppure tanto e quindi non mi preoccupo. Se scrive uno di sinistra mi fa apparire come un libertario contestatore. Non è vero ma neppure questo mi dispiace più di tanto. Ho incontrato molto professionisti che riescono in poco tempo a restituirmi una immagine di me migliore di quella che mi riconosco. Insomma penso che a offrirsi si viene trasformati. Troppi sono preziosi, hanno paura di sciuparsi. Ma senza sciuparsi non ci si modifica. Penso che le letture degli altri aiutano a leggere sé stessi. L'autore e ciò che scrive sono indipendenti dalla realtà di riferimento e sono anche indipendenti tra loro. Il problema è di chi viene usato come pretesto della scrittura, se si sente violato o meno, se è abbastanza sicuro di sé e delle proprie relazioni da non sentirsi modificato da una falsa rappresentazione; ed ancora più difficile è la condizione di chi è il riflesso della propria immagine. Io non ho un'immagine da difendere ma una identità che affermo nelle mie relazioni quotidiane. Quando leggo una falsa rappresentazione di me dico: 'ma io non sono Pasquale', riferendomi a quella scenetta di Totò che continua a prendere schiaffi da uno che lo chiama Pasquale e a ridere a crepapelle a ogni schiaffo preso e poi spiega all'amico incredulo "ma io mica mi chiamo Pasquale". Gli schiaffi all'immagine sono schiaffi alla persona solo se uno vuole sentirli. Ci sono degli amici che leggendo qualcosa su di me credono più al giornale che non alla loro esperienza. Hanno un grave problema e mi dispiace per loro. Le false notizie del giornale mi hanno aiutato a scoprire la verità di un falso. Altro è se si tratta di notizie false in grado di danneggiarmi realmente. Lì bisogna subito mettere mano alla carta bollata. Ma qui non siamo più nel campo della licenza poetica ma nel campo della licenza d'uccidere. L'ultima volta la cattiva prosa di un commissario mi è costata tre anni di inutile latitanza conclusasi con un proscioglimento in istruttoria per non avere commesso il fatto. Sono passati trenta anni ma è una esperienza da custodire nella memoria.



Che cosa fa scorrere l'infelicità?Cosa non c'era scritto in "Lettera a una professoressa"?



La legge di gravità che porta inesorabilmente i corpi pesanti verso il basso. O meglio, la grande massa porta a sé la piccola massa. Il buco nero inghiotte ogni luce. Ci illudiamo con la potenza dei motori di raggiungere la velocità di fuga dalla nostra massa, ma non facciamo altro che dirigerci nell'orbita di una nuova massa. Non è con la potenza dei motori che ci allontaniamo da questa fatale attrazione. Un giorno un quadrupede smise di camminare a quattro zampe fissando il suolo da cui strappava il cibo ed incominciò a guardare davanti e lontano e il suo corpo fu teletrasportato nei luoghi che l'occhio vedeva e poi in quelli che la mente ricostruiva. Sulle pareti di una caverna imparò a proiettare i suoi sogni e poi inventò altri strumenti per sognare e ricordare. Senza pareti per proiettare, senza strumenti per sognare e ricordare la vita è pesante e scorre verso il basso. L'infelicità non viene dalle ingiustizie del mondo (che sono troppe persino per essere enumerate) ma dai cuori chiusi, che trovano nelle ingiustizie del mondo il punto d'Archimede per far precipitare un macigno ciclopico per ostruire l'ingresso all'anima. Che cosa non c'è scritto da parecchie parti. Cosa non c'è scritto in generale nella letteratura pedagogica. Non c'è scritto – almeno in Lettera a una Professoressa - il dolore, non c'è scritto che dietro il canto lirico c'è una discesa agli inferi; non c'è scritto lo sgomento che prova ciascuno ad entrare in contatto con l'orrore e con il dolore devastante. Non c'è scritto quello che poi stava scritto nella sofferenza di alcuni corpi, nelle morti giovani, nelle pazzie ricercate. Don Milani era un profeta che come altri profeti ha messo il suo corpo a disposizione del divino che attraverso lui aveva la possibilità di parlare. Fino a morirne (incidentalmente si è trattato di un cancro, ma il divino trova mille travestimenti). Perché le stimmate e le ferite sanguinanti sono proprie dei veri profeti. Pochi sanno parlare delle proprie ferite e preferiscono parlare di quelli per i quali soffrono e di quelli che li fanno soffrire: degli ultimi che dovranno essere primi e dei primi che dovranno essere ultimi, dei buoni che soffrono, dei cattivi che fanno soffrire. La mia ambizione, che è anche una metodologia di lavoro, è di affrontare tutto questo in modo laico, di riuscire a vedere, nominare ed elaborare la sofferenza e con questo fare a meno dei profeti (ben vengano, ma bisogna sempre aspettare che l'Onnipotente si decida) e riuscire a essere dei buoni mastri (mastro e non maestro) per gli apprendisti della vita.



Dei nomi: Mario Lodi, Francesco Tonucci, Mario Martone, Nino D'Angelo.



Con i nomi ho difficoltà, perché presuppongono un lavoro di conoscenza dei loro lavori, che purtroppo da almeno dieci anni ho sospeso a causa di una vita insieme troppo intensa e troppo disordinata, e quindi non riesco più a fare. Francesco Tonucci faceva delle belle ed ironiche vignette durante un convegno di insegnanti. Riuscire a fare ironia con questa triste categoria è veramente impresa sublime e quindi mi piace. Di Mario Lodi so qualcosa di superficiale. Mi va bene che diventi senatore a vita come qualcuno ha proposto. So che è una pietra miliare della nostra pedagogia. Purtroppo io sono un autodidatta eclettico e non so abbastanza di lui. Sono anni che mi riprometto di studiarlo. Mario Martone l'ho sentito a Trieste durante un convegno "basagliano" in cui ero relatore, e ha detto delle cose straordinarie, talmente dense che non sono riuscito ad appuntarmele bene. Immagino che nel suo lavoro di regista questo suo sentire sia importante. Non so abbastanza da poter dire quanto ci riesca. Di Nino D'Angelo bisogna sapere per forza qualcosa. La persona: l'ho conosco da alcune interviste, talk show, etc. Sembra molto migliore rispetto al cliché del cantante napoletano verace. Non sono in grado di valutare la sua produzione artistica perché non la conosco. E comunque non è una cosa di cui vantarsi.



Ho un'idea: trattiamo tutti i cattivi con gli psicofarmaci. Che ne dice?



Sono d'accordo anche con provvedimenti più drastici. Ho solo un dubbio: ma poi quando finisce l'effetto, cosa facciamo? Ci saranno sani a sufficienza da somministrare tempestivamente le nuove dosi? A domande di questo tipo rispondo sempre affermativamente, poi mi interrogo sulla loro praticabilità effettiva. Mio nonno mi diceva sempre che per catturare un uccello bastava mettergli un pizzico di sale sulla coda. Ero piuttosto ingenuo e lui continuava a farmi degli scherzi di questo tipo. Credo di essere arrivato a cinquanta anni senza aver operato una revisione critica di questo assioma. Poi ho capito che per mettere il sale sulla coda dell'uccello occorre prima catturarlo e tenerlo fermo. Se uno ha voglia di prendere psicofarmaci sta già sulla strada buona: e gli altri, chi li cattura per tenerli fermi?



E quelli che nessuno vuole, nemmeno Lei?



Devono morire. In molti modi: suicidio ed omicidio, autodistruzione lenta con le sostanze; arruolamento in qualche battaglione della morte; ritiro paranoico o esplosione schizofrenica. La democrazia fa a meno di gasare le persone "tarate", lascia che provvedano da sé stessi alla bisogna, lascia che qualcuno in conto terzi versi lacrime di pentimento su queste morti. La nostra cultura ha elaborato modelli di intervento che sono adatti anche ai casi più estremi; ciò di cui mi occupo io è comunque qualcosa che somiglia ad una scuola. Per altri ci vuole qualcosa di più forte e totalizzante, ma sembra che non ci sia nessuna intenzione di occuparsene seriamente. Cosicché al momento se ne occupano becchini, carcerieri e poliziotti.









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