ATTUALITA'
Stefano Torossi
Arcangelo Corelli (!653-1713)

A Fusignano dove nasce nel 1653, i suoi antenati sono famosi come attaccabrighe che da anni, se non da secoli, tentano di strappare, senza riuscirci, il feudo alla famiglia rivale dei Calcagni.
Lui invece lo descrivono “timido, ordinato, austero, servizievole e tranquillo”, nella vita di tutti i giorni; ma guai a contrariarlo sul lavoro! Allora diventa “energico, esigente e determinato”.
Appena può se ne va a studiare a Bologna, che è all’epoca la seconda città più importante dello Stato Pontificio, con la sua antica università e una quantità di chiese che mantengono orchestre e cori; poi ci sono tre grandi teatri per spettacoli drammatici e operistici, diverse case editrici musicali e perfino una mezza dozzina di accademie sovvenzionate dai nobili e dal clero. Insomma, un nido di cultura e di arte. Bella fortuna esserci capitato al momento giusto.
La sua produzione è striminzita: cinque raccolte di sonate per violino solo o in trio e una di concerti grossi. Ma sufficiente a fare di lui il violinista più famoso del suo tempo, nonché un maestro insuperato di tecnica virtuosistica e di esecuzione. Un vero miracolo che gli capita mentre è ancora vivo, giovane e in piena attività. Ammesso all’Accademia dell’Arcadia, chiamato da principi e cardinali il “Nuovo Orfeo”, il “Principe dei Musicisti”, insomma una leggenda vivente.
Eppure, anche lui deve combattere la sua guerra in famiglia perché all’epoca quella del musicista è una professione servile e di pochissimo prestigio sociale, per cui mamma Corelli, che appartiene alla piccola nobiltà campagnola, rimasta vedova presto, acconsente a fargli prendere qualche lezione privata di violino, purché però completi i suoi studi tradizionali, prima di lasciarlo andare a Bologna, dove, appena diciassettenne lo invitano all’Accademia Filarmonica.
Poi, via verso Roma, dove il suo prestigio di virtuoso, ma anche di direttore d’orchestra, cresce, diventa internazionale, grazie alla protezione della regina Cristina di Svezia, poi del cardinale Pamphili e finalmente del suo grande mecenate, il cardinale Ottoboni, nipote di Papa Alessandro VIII, che lo ospita a palazzo insieme ai fratelli Ippolito, Domenico e Giacinto, lasciandolo completamente libero dalle pressioni che gli altri musicisti devono subire dai loro potenti e spesso prepotenti padroni.
Qui Arcangelo vive in mezzo al lusso (degli altri). Lui è persona modesta e discreta. Il suo unico capriccio è una bella collezione di dipinti, che accresce anno dopo anno fino ad arrivare a centoquaranta pezzi importanti, insieme a un certo numero di violini di pregio che lascerà in eredità al suo allievo prediletto Matteo Fornari, con il quale si mormora abbia una relazione (Corelli non si sposa né gli si conoscono storie di donne).
Pare che sia anche estremamente parsimonioso: il suo guardaroba è ridottissimo, va in giro sempre vestito di nero e solo a piedi, e si arrabbia se qualcuno cerca di farlo salire in carrozza.
Invece quando suona, specialmente passi difficili, “la sua figura è trasmutata e contorta, i suoi occhi sono tinti di rosso e girati nelle orbite come fosse in agonia”.
Ma anche in una vita così lineare non manca qualche inciampo. Convocato a Napoli per farsi ascoltare dal re, mentre suona un adagio, Sua Maestà, annoiato, si alza e se ne va a metà dell’esecuzione con grande mortificazione di Arcangelo. In un’altra occasione, a Roma per un’opera di Haendel, con l’autore presente, pare che quest’ultimo, insoddisfatto dell’esecuzione, gli tolga il violino di mano per mostrargli come il brano va suonato.
Verso il 1710 si ritira dai palcoscenici, lasciando la direzione dell’Orchestra di San Luigi, che aveva tenuto per più di vent’anni, occupandosi, come un vero impresario, di reclutare esecutori e pagare stipendi, viaggi e trasporto strumenti, talvolta mettendo insieme formazioni per l’epoca sterminate: fino a 150 elementi.
Il suo posto viene preso dall’allievo Fornari, e quando muore, il suo protettore Ottoboni lo fa seppellire nel Panteon, un onore supremo per un musicista. Ricordiamoci sempre che allora i musicisti facevano parte del personale di servizio e non contavano un gran che.
Corelli, il grande virtuoso del violino, non ha lasciato nessuna testimonianza scritta sulla sua tecnica strumentale. All’epoca c’erano addirittura in uso diversi modi di tenere lo strumento: sotto il mento, sopra la spalla o contro il petto. Pare che lui lo tenesse appoggiato al petto e molto proiettato in avanti “appena sotto la clavicola, inclinando leggermente il lato destro verso il basso, in modo che non sia necessario inchinarsi troppo quando bisogna suonare la quarta corda”.
Un’ultima nota che forse farà sorridere i nostri lettori violinisti: “Corelli riteneva essenziale che l’intera orchestra muovesse gli archi esattamente insieme: tutti su, tutti giù, in modo da poter interrompere le prove se avesse visto un arco fuori posizione”.
Lui invece lo descrivono “timido, ordinato, austero, servizievole e tranquillo”, nella vita di tutti i giorni; ma guai a contrariarlo sul lavoro! Allora diventa “energico, esigente e determinato”.
Appena può se ne va a studiare a Bologna, che è all’epoca la seconda città più importante dello Stato Pontificio, con la sua antica università e una quantità di chiese che mantengono orchestre e cori; poi ci sono tre grandi teatri per spettacoli drammatici e operistici, diverse case editrici musicali e perfino una mezza dozzina di accademie sovvenzionate dai nobili e dal clero. Insomma, un nido di cultura e di arte. Bella fortuna esserci capitato al momento giusto.
La sua produzione è striminzita: cinque raccolte di sonate per violino solo o in trio e una di concerti grossi. Ma sufficiente a fare di lui il violinista più famoso del suo tempo, nonché un maestro insuperato di tecnica virtuosistica e di esecuzione. Un vero miracolo che gli capita mentre è ancora vivo, giovane e in piena attività. Ammesso all’Accademia dell’Arcadia, chiamato da principi e cardinali il “Nuovo Orfeo”, il “Principe dei Musicisti”, insomma una leggenda vivente.
Eppure, anche lui deve combattere la sua guerra in famiglia perché all’epoca quella del musicista è una professione servile e di pochissimo prestigio sociale, per cui mamma Corelli, che appartiene alla piccola nobiltà campagnola, rimasta vedova presto, acconsente a fargli prendere qualche lezione privata di violino, purché però completi i suoi studi tradizionali, prima di lasciarlo andare a Bologna, dove, appena diciassettenne lo invitano all’Accademia Filarmonica.
Poi, via verso Roma, dove il suo prestigio di virtuoso, ma anche di direttore d’orchestra, cresce, diventa internazionale, grazie alla protezione della regina Cristina di Svezia, poi del cardinale Pamphili e finalmente del suo grande mecenate, il cardinale Ottoboni, nipote di Papa Alessandro VIII, che lo ospita a palazzo insieme ai fratelli Ippolito, Domenico e Giacinto, lasciandolo completamente libero dalle pressioni che gli altri musicisti devono subire dai loro potenti e spesso prepotenti padroni.
Qui Arcangelo vive in mezzo al lusso (degli altri). Lui è persona modesta e discreta. Il suo unico capriccio è una bella collezione di dipinti, che accresce anno dopo anno fino ad arrivare a centoquaranta pezzi importanti, insieme a un certo numero di violini di pregio che lascerà in eredità al suo allievo prediletto Matteo Fornari, con il quale si mormora abbia una relazione (Corelli non si sposa né gli si conoscono storie di donne).
Pare che sia anche estremamente parsimonioso: il suo guardaroba è ridottissimo, va in giro sempre vestito di nero e solo a piedi, e si arrabbia se qualcuno cerca di farlo salire in carrozza.
Invece quando suona, specialmente passi difficili, “la sua figura è trasmutata e contorta, i suoi occhi sono tinti di rosso e girati nelle orbite come fosse in agonia”.
Ma anche in una vita così lineare non manca qualche inciampo. Convocato a Napoli per farsi ascoltare dal re, mentre suona un adagio, Sua Maestà, annoiato, si alza e se ne va a metà dell’esecuzione con grande mortificazione di Arcangelo. In un’altra occasione, a Roma per un’opera di Haendel, con l’autore presente, pare che quest’ultimo, insoddisfatto dell’esecuzione, gli tolga il violino di mano per mostrargli come il brano va suonato.
Verso il 1710 si ritira dai palcoscenici, lasciando la direzione dell’Orchestra di San Luigi, che aveva tenuto per più di vent’anni, occupandosi, come un vero impresario, di reclutare esecutori e pagare stipendi, viaggi e trasporto strumenti, talvolta mettendo insieme formazioni per l’epoca sterminate: fino a 150 elementi.
Il suo posto viene preso dall’allievo Fornari, e quando muore, il suo protettore Ottoboni lo fa seppellire nel Panteon, un onore supremo per un musicista. Ricordiamoci sempre che allora i musicisti facevano parte del personale di servizio e non contavano un gran che.
Corelli, il grande virtuoso del violino, non ha lasciato nessuna testimonianza scritta sulla sua tecnica strumentale. All’epoca c’erano addirittura in uso diversi modi di tenere lo strumento: sotto il mento, sopra la spalla o contro il petto. Pare che lui lo tenesse appoggiato al petto e molto proiettato in avanti “appena sotto la clavicola, inclinando leggermente il lato destro verso il basso, in modo che non sia necessario inchinarsi troppo quando bisogna suonare la quarta corda”.
Un’ultima nota che forse farà sorridere i nostri lettori violinisti: “Corelli riteneva essenziale che l’intera orchestra muovesse gli archi esattamente insieme: tutti su, tutti giù, in modo da poter interrompere le prove se avesse visto un arco fuori posizione”.
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